NONNO RACCONTAMI DE QUANDO SE BRUSAVA EA VECIA

Oh che ricordi! Che bei ricordi nipote mio.

La nostra famiglia, devi sapere, che era – ed è – una famiglia della terra. Seguiva la Divina Provvidenza e la Divina Provvidenza la portava a lavorare da mezzadri alcune stagioni in un luogo e poi, dopo alcuni anni, poteva condurla altrove e, qua e là, c’era chi si fermava e metteva su famiglia e chi, invece, poi tornava a partire. E, quando senti dentro te la terra, non ti serve portarti dietro tante cose, che all’epoca poi erano proprio poche, perché tutto quello che ti serve ce l’hai già dentro e lega te a me proprio come me a mio padre e a suo padre prima di lui e prima ancora, prima ancora, fino agli inizi dei tempi.

Perché vedi, nipote mio, possono passare anche gli anni e con gli anni pure le generazioni che sono andate avanti e di cui ti sei forse pure dimenticato i nomi e i volti ma loro sono la tua terra e, come la terra, tu ti porti dentro anche il fiume, ti porti dentro il Piave, quello che scorreva vicino agli argini del paese da dove proveniamo e non importa che tu non sia nato là, anche quel fiume ti scorre per sempre dentro le vene, proprio come il sangue, scorre nelle tue vene come scorre nelle mie.

Fu così che i nostri vecchi, i tuoi bis, bis, bis, bis nonni, più o meno credo, si portarono dentro, in un altro paese lungo un altro fiume, lungo il Brenta, la tradizione de far el pan e vin, de brusar ea vecia la sera che precedeva una festa religiosa che un tempo chiamavamo Epifania.

Fin dal primo mattino di quel giorno che concludeva un lungo periodo di vacanze scolastiche di quelle che, tanto tempo fa, erano le feste di Natale e che nel tempo hanno svuotato chiamandole feste della felicità o feste delle luci, si andava in campagna, a casa dei nonni e, per un giorno, anche loro lasciavano il lavoro dei campi e si cominciavano a recuperare e a far su grandi cataste di legno e paglia attorno ad un lungo palo in testa al quale si recuperava qualche vecchio vestito che si riempiva di paglia, a mo di spaventapasseri, cui si cercava di dare le forme e la faccia di una vecchia strega che così diventava ea vecia, ea vecia da brusar sopra quel rogo che chiamavamo ea piroa e paroa o el pan e vin.

Intanto, in cucina, si preparava il dolce antico della pinza, antico come quel rito contadino, rito pagano diventato cristiano: pane raffermo, farina, uva passa e fichi secchi, pinoli e semi di finocchio, zucchero, sale e latte che, tutto amalgamato assieme, finiva in forno e che sarebbe stato poi mangiato a fine cena e, tagliato, offerto a tutti gli ospiti da portare a casa.

Poi? Beh, poi si aspettava il buio della sera ed era allora che il nonno prendeva un bastone che aveva preparato, cui aveva legato uno straccio all’estremità e vi dava fuoco e, prendendo uno di noi nipoti per mano, di solito il più piccolo, andava alla base della catasta ed appiccava il fuoco in più punti perché del fuoco si doveva stare attenti ma mai aver paura, perché il fuoco avrebbe bruciato l’anno appena trascorso appeso là in alto su quel palo.

E il fuoco piano saliva lungo la catasta ed illuminava a giorno i muri della stalla, del porcile e del pollaio e così illuminava tutti noi. Tutta una famiglia che buttava alle spalle l’anno vecchio e sapevamo che, nello stesso momento, decine e decine di quei fuochi si accendevano in altre campagne, da campagne da dove arrivavamo e da campagne da dove ci eravamo ormai dimenticati di arrivare ma tutti con la stessa terra e lo stesso fiume dentro e tutti ancora una volta idealmente uniti, vivi e morti, in quella nuova luce che rappresentava la speranza nell’anno appena iniziato.

Era allora che il nonno cominciava il suo canto antico, molto, molto più antico del dolce della pinza, tanto antico come antico era quel rito di fuoco e luce e che egli aveva appreso da suo padre, proprio come suo padre da suo padre prima di lui fino alle radici della nostra storia. Ogni anno forse cambiava qualche parola ma, circa, quel canto augurale faceva così:

Pan e Vin, ła pinsa soto el camin.

Se e faive va a ponente sto anno panoce niente

ma se e faive va a levante de panoce ghe ne sarà tante.

Pan e Vin, ea vecia su pal camin / fasioi par i fasiooni e poenta pai poentoni

Se e faive va a montagna magra ea castagna

ma se va a Garbin tote el saco e va al muin

Pan e Viiiin…

Poi? Poi non si poteva che finire a tavola, anzi alle tavole, perché il contadino viveva forse di poco ma viveva di compagnia di amici, conoscenti e familiari, in una serata spesso stretti seduti a tavola ma larga di gioia e felicità vera.

E poi? Poi veniva la Befana ovviamente, che mica era bruciata sai, quella era solo un fantoccio, perché noi bambini sapevamo che invece lei veniva in volo con la sua scopa ed eravamo tutti che guardavamo fuori dalla finestra un po’ spaventati che quella brutta, vecchia strega non era mica come Babbo Natale sai che era arrivato solo qualche giorno prima e sempre in quella cucina. Chissà poi come facevano a trovare la casa da lassù nel cielo. Mah!

Ma quella Befana era sì ogni anno sempre più vecchia e sempre più brutta ma anche ogni anno sempre più buona e tanto, tanto generosa. Ci metteva sempre tante cose buone dentro a dei calzettoni: mandarini, arance, noci e tanta, tanta cioccolata e tante, tante caramelle. Aveva calzettoni per tutti e più eri grande e più rischiavi la vita di quell’anno che era appena cominciato perché ti tirava dietro quei calzettoni pieni di ogni ben di Dio come dei proiettili che, o eri pronto ad afferrarli, o eri pronto il giorno dopo per il dentista ma era pure una Befana strana, molto strana, e non capivamo perché invece delle calze come facevano tutte le Befane normali lei usasse sempre i calzettoni di zio Lele che, ridendo, ogni anno protestava perché non ne trovava più nel cassetto di casa da indossare.

E intanto fuori il fuoco si consumava e si spegneva ed iniziava un nuovo anno ma pareva ancora di sentirli là fuori i nostri veci, di tutte le generazioni che ci hanno preceduto, tutti tornati uniti attorno allo stesso fuoco, riabbracciare chi durante quell’anno appena trascorso era tornato alla terra e aspettare ognuno di noi secondo il suo tempo ricominciando col canto antico:

Pan e viiin…

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