NONNO, NONNO RACCONTAMI DELLA GUERRA

Trovammo quel mucchio di fogli ingialliti sul fondo di un cassetto, quasi nascosti, tenuti assieme da un elastico che, appena tentammo di toglierlo, si ruppe.

Scoprì solo più tardi che quello era il diario di prigionia come internato militare italiano di nonno durante la seconda guerra mondiale che cominciava con la cattura per mano dei tedeschi sull’isola di Creta (e qui pensai subito: nonno in un’isola dell’Egeo, io che al più me lo rivedevo a Caorle per l’estate con nonna o in pellegrinaggio al santuario di Castelmonte cui ci recavamo ogni anno) e che si chiudeva a fine giugno del 45 alla vista del valico del Brennero proveniente dalla Germania (all’epoca anch’io l’avevo studiata solo sui libri).

Cominciai così a trascrivere quel diario poco più che adolescente con solo lente d’ingrandimento e una macchina da scrivere allora ancora a martelletto. Mi ci vollero alcuni anni.

Fu infatti già un’impresa mettere ordine cronologico a quei fogli che, alla data, non andavano mai a capo per risparmiare carta, carta di fortuna, anche su moduli di chissà che cosa in tedesco e pure sulle pagine lasciate in bianco delle poche lettere ricevute da casa e che, alla bella grafia a matita dei primi giorni, si sostituì presto quasi uno scarabocchio per una mano che raccontò ferita.

Alla fine ne fotocopiai alcune copie per i familiari. Non avevo forse ancora la maturità o, più semplicemente, non era ancora giunto il tempo e … me ne dimenticai.

Poi, maturo poco ma vecchio abbastanza, col pretesto di un libro sulla nostra famiglia e partendo dall’albero di un cugino con la passione per la genealogia che andava per archivi parrocchiali – battesimi, matrimoni, morti – ritirai fuori quel diario e mi venne voglia di scoprire di più su questo nonno prigioniero, anzi internato militare italiano durante la seconda guerra mondiale, e cominciai anch’io ad andar per archivi … archivi di stato, archivi militari e … archivi in Germania. Era semplicemente giunto il tempo giusto e quel tempo era là che mi aspettava, mi aspettava da quasi un secolo.

Perché quel diario – solo allora capì – era sì stato scritto da lui ma era anche il diario dei suoi compagni ma anche di tutti coloro che in altri luoghi e tempi simili lo scrissero indelebile nei loro ricordi e lo chiusero spesso a casa nei loro silenzi o che la terra accolse interrotto in Germania o altrove, anche nelle stive delle navi affondate nell’Egeo, molti senza nemmeno un nome su una croce ignoti per sempre, per sempre prigionieri nella storia. Per questo bisognava che tentassi di ridare almeno un volto e una storia a quei compagni che egli citava e che condivisero con lui quei giorni di lavoro forzato, di freddo, di fame, malattie, punizioni corporali o morire sotto i bombardamenti e tutto, tutto per mantenere fede ad un giuramento, solo per mantenere fede a un giuramento, e rifiutare l’arruolamento nelle forze nazifasciste iniziando la vita di prigioniero che egli aveva annotato giorno per giorno raccontando la vita del campo e dei lavori forzati coi propri compagni.

E così, così ripercorsi quei giorni e mi rividi anch’io quei quattordici giorni chiusi a catenaccio dentro i vagoni bestiame che dalla Grecia, da Atene, in un caldo asfissiante attraversarono i Balcani, bevendo poco, mangiando quasi niente, facendo i bisogni in un secchio comune e urinando nelle scatolette fin su nella Germania nazista verso un destino ignoto ma sempre sorretto dalla fede e dalla speranza di riabbracciare la famiglia.

Arrivai così in un primo campo di prigionia e poi un secondo e infine un terzo con la pancia sempre più vuota ma costretto a lavorare vestito poco e male nei freddi inverni tedeschi del secondo conflitto mondiale tanto che, per tanti miei compagni, quei campi divennero di morte e di quei morti scrivo.

Ma lui e i suoi compagni resistettero assistendo così allo sfacelo di quello che chiamavano il terzo impero ma anche alle ultime barbarie di un regime che, ormai alla fine, massacra le sue ultime vittime con gli alleati solo a pochi metri, vivendo la liberazione sua ma anche del suo paese attaccato alla radio clandestina, con la vendetta dei compagni su coloro che avevano collaborato coi tedeschi e poi l’attesa del rimpatrio che non sembrava mai arrivare e ancora una stazione e ancora un treno e finalmente Italia.

Ma, come ti ho detto nipote mio, molta di quella morte nei campi tornò a casa dentro i loro silenzi, ognuno col proprio diario chiuso nei loro ricordi che, mai raccontato ai familiari, restò con la loro morte inedito perché c’era allora un paese pieno di macerie, più spesso umane, alcune da ricostruire ed altre da nascondere e altri eroi che si voleva ricordare ma la loro è stata Resistenza, Lotta di Liberazione senz’armi anche se non la studiate a scuola e in quei campi per primi posero le fondamenta della convivenza pacifica fra i popoli d’Europa che loro, loro che la guerra l’avevano vista finalmente morire, avrebbero voluto fosse per noi e per sempre.

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