IL MURO DEL LAVORO

Ho visto quel muro fin da bambino. Alto, con sopra il filo spinato. Costeggiava, e costeggia, un lungo tratto della strada che un tempo percorrevo per andare in auto coi miei genitori dai nonni partendo da Marghera per andare a Malcontenta. Quel muro era, ed è, ancora di solido cemento, solido come quell’occupazione che, per chi c’entrava dentro a lavorare, sembrava dovesse durare per sempre, per tutti, fino alla pensione. Proprio come il lavoro, anche quello sembrava non dovesse finire mai.

Quel muro, in realtà, iniziava, ed inizia, con dei cancelli, dietro ai quali, sopra una struttura che, ancor oggi, pare prefabbricata, quasi provvisoria, si alternarono negli anni le immense insegne delle proprietà di quell’immensa fabbrica che i più dicono fosse il polo chimico forse più grande d’Europa. Una città che non si spegneva mai, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni all’anno. Una città a ciclo continuo, come gli impianti chimici di produzione che ospitava e con tutte le attività che servivano: banchine portuali e piazzali, per le navi ed i camion che arrivavano pieni di materie prime che, una volta trasformate, ripartivano per tutto il mondo senza quelle che arrivavano e ripartivano via condutture aeree verso petrolchimici più piccoli in Italia.

Forse la chiusura del petrolchimico è cominciata proprio con lo spegnimento delle luci che sempre meno illuminavano quella città industriale così vicina alla città umana eppure rimasta sempre così lontana, così estranea che, ogni anno restava là ma che ogni anno si allontanava sempre più. Anche le luci delle lettere delle insegne dello stabilimento ad una ad una poi si spensero quando, bruciate le lampadine, non si sostituirono, proponendo, per chi percorreva la strada, monconi di parole come a rappresentare i pezzi che mano a mano si perdevano della grande fabbrica.

Ora quel muro è ancora là a separare la città industriale, che ormai quasi non esiste più dall’altra città, Marghera, quartiere un tempo operaio ed oggi indefinito che, ieri come oggi, è così vicino all’acqua della laguna eppure sembra così lontano da Venezia che è di là, di là dalla laguna, poco importa il ponte che la unisce alla terraferma e Marghera resta forse pure lontana da Mestre, separate anch’esse, ieri come oggi, non dall’acqua ma da una ferrovia e poco importa se anche qui unite da un cavalcavia.

Di quel muro resta, oggi come allora, almeno alla vista, soprattutto proprio quel tratto che partiva dai cancelli di quella che un tempo chiamavano ingresso portineria 3 perché, anche se c’erano numerosi accessi, quello sul finire di via fratelli Bandiera era quello più conosciuto. L’unica portineria che dava direttamente su una strada cittadina che bastava attraversare che eri già nella Marghera popolare, quella operaia quella che era scappata da Venezia o era scappata dalle campagne in cerca di lavoro.

E di là della strada, quasi a dire: “faccio parte di te Marghera” resta il capannone di tante lotte operaie ormai troppo, troppo grande per tenere quel ormai pugno di lavoratori nelle sempre più rare assemblee, quel capannone che un tempo dovevi andarci presto se volevi trovare un posto a sedere o rassegnarti ad allungare il collo dietro il muro di lavoratori che straripavano dalle porte aperte per vedere, ascoltare e discutere coi rappresentanti del lavoro fossero buoni sindacalisti o buoni politici che allora spesso venivano fuori entrambi dalle loro file.

Oggi resta un capannone, un immenso parcheggio vuoto con i posti auto coperti da una tettoia ormai arrugginita, una fermata cui i bus non fermano ormai più dove un tempo si sgomitava per salire sui mezzi di trasporto pubblico che, uno dietro l’altro, riportavano a fine giornata gli operai a casa lungo la riviera del Brenta fino a Padova, la Romea fino anche a Chioggia o i paesi del miranese e, dall’altra parte, anche se meno, verso i quartieri di Mestre e pochi, molto pochi, verso Venezia. C’era pure, e c’è, anche se quello ormai chiuso, addirittura un sottopasso per chi, giornaliero, doveva, a fine giornata o in pausa pranzo, attraversare in sicurezza la strada verso il parcheggio o l’immensa mensa a fianco del capannone sindacale e ogni giorno si ripeteva la scena di coloro che vedevi correre di là dei cancelli per arrivare presto in fila e rubare un posto a tavola o, nel tardo pomeriggio, per salire in bus.

Ma le portinerie erano molte e molte le scene simili che non vedevamo perché poi il muro ad un certo punto pareva scomparire ma, di là di un cancello che di notte si chiudeva, si apriva una lunga strada di qualche chilometro verso la laguna con strade ed impianti e serbatoi lato per lato e centrali termiche e torri di raffreddamento e laboratori analisi e un po’ a sinistra e un po’ a destra altre portinerie ed altri parcheggi ed altre mense immense.

Ma quel muro separava anche la città conosciuta, quella abitata, anche da questa città sconosciuta quella industriale, nonostante spesso non c’era una famiglia che non contasse almeno un operaio là dentro e qualcuno, infine, ce la fece percepire come nemica questa città, nemica dei piccoli e fragili quartieri e dei suoi abitanti ma, soprattutto, nemica dell’ambiente e così divenne nemico pure il lavoro e nemici pure i lavoratori di là del muro.

Poco importa che non si vedessero più, come un tempo, le polveri sui davanzali delle finestre e i colori dei fumi delle ciminiere e gli odori della fabbrica perché i primi che proprio volevano l’ambiente, specie di lavoro, sano erano i lavoratori ma ormai c’era chi non voleva comunque più quella grande fabbrica, costasse pure lavoro e lavoratori.

La città industriale venne così abbandonata per prima dalla politica perché ora sembravano tirare di più i voti dell’ambiente. Quella stessa politica che, prima, durante le elezioni, vedevi venire a parlare alle assemblee dei lavoratori e a sedersi tra tante tute blu in mensa.

E così, oggi, questa città della chimica sembra essersi ritirata dietro, nei bastioni più interni, quella che, lontano dal muro, si spera così almeno che non si veda o si veda meno, tentando di difendere quei pochi castelli rimasti fatti di tubi, serbatoi e scale dentro cui si rifugiano, ancor oggi, spesso ancora a turni sei due, due dieci e notte li chiamavano – chissà se anche quelli, i turni intendo, son cambiati – si rifugiano quegli strani animali in via d’estinzione che si chiamano lavoratori.

Nemmeno il sindacato sembra voler preservare questa specie ormai rara, i lavoratori, in una società dove ormai valgono oggi sempre più gli animali che l’animale umano. Anche qui sembra esserci ormai spesso un muro ma tra i lavoratori e chi li dovrebbe rappresentare ma questa è un’altra storia.

Intanto, si alzano altri muri tra la città ed il lavoro. Oggi il porto, domani chissà forse l’aeroporto poi la natura rigogliosa ci ricoprirà tutti.

 

2 commenti su “IL MURO DEL LAVORO

  1. Bella, emozionante, sintetica descrizione di un importante periodo vissuto che purtroppo saremo sempre in meno a ricordare!

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