Anche quello della vendemmia, nipote mio, era come un rito, un rito di un tempo del mondo contadino, un mondo che adesso non esiste più e si concludeva, come sempre, come per altri riti, con una grande festa dove il vino mica veniva comprato come oggi in farmacia in quelle fiale che del vino han mantenuto solo il colore e il sapore come miscuglio di qualche polverina chimica mescolata con l’alcol.
All’epoca, attorno le case di campagna, c’erano lunghe file di viti che chiamavano filari, decine, centinaia di filari paralleli e campi e campi piantati ad uva.
Ogni filare era una lunga fila di pali piantati nella terra ad una distanza sempre uguale l’uno dall’altro. Prima pali di legno, poi di cemento, poi di plastica poi tolsero tutto, tolsero le piante, tolsero i filari e tolsero anche il vino e con il vino tolsero un’altra parte della nostra cultura.
La pianta della vite era come la pianta della vita. Il nonno, un po’ come ti insegnavano faceva Dio con ciascuno di noi, lo trovavi nei filari e, una pianta dopo l’altra sceglieva il tralcio che sapeva giusto e tagliava gli altri, sì li buttava via perché l’uva non serviva fosse tanta ma che fosse buona, e così attorcigliava il tralcio al filo in modo tale che il grappolo, una volta grosso e maturo, fosse poi sostenuto e non cadesse a terra insomma, come fa lo Spirito Santo ma questa è un’altra storia che non puoi più capire, una storia ormai troppo lontana.
E il nonno poi curava la pianta della vite per tutto l’anno. Passava tra i filari e, a uno a uno, guardava ogni singolo grappolo crescere e, proprio come nella vita, se vedeva anche un solo acino marcio lo strappava e lo buttava via ma se l’intero grappolo aveva troppi acini marci rompeva via tutto il grappolo buttandolo a terra ma anche quello sarebbe poi tornato vita.
Poi, prima che l’autunno arrivasse e l’inverno ci chiudesse in casa, dopo aver durante la primavera e la stagione estiva raccolto ogni frutto della terra per ultimo si raccoglieva l’uva e si andava a vendemmiare.
Allora, si tiravano fuori i cesti riposti dall’anno precedente, quelli ancora in legno, quelli che qualche parente, forse un secolo prima, sapeva ancora intrecciare. Restava almeno il cesto e così forse pure il ricordo del parente, poi si preferì la cesta in plastica lavabile e così si perse pure il ricordo del parente.
E cominciavano ad arrivare amici, conoscenti, parenti e vicini cui poi si sarebbe ricambiato il favore perché la vendemmia era un po’ come una comunione per la quale, sai, ci si prendeva pure le ferie dal lavoro per andare, una messa laica anche se la sera diventava spesso pure una messa alcolica dove, diciamo, a volte parlava pure lo Spirito Santo.
Così si aprivano anche i cassetti dove, sempre l’anno prima, si erano riposte le forbici a cesoia e quasi si buttavano sul tavolo e così tante mani cominciavano ad aprirne ad una a una la sicura per provarle, testarne se la molla era dura o morbida o se si inceppava ma c’era pure chi veniva con la sua forbice personale e guai ad usarla perché poteva quasi costarti la vita.
E il nonno decideva da dove iniziare. Decideva a seconda di come era andato l’anno e a che punto era la maturazione dell’uva, se vendemmiare prima la bianca o la nera, il verduzzo o il pinot bianco, il pinot nero o il clinto, da non confondere col clintòn e così, uomini e donne, andavano nei filari ognuno con la propria forbice e il proprio cesto ed attaccavano un pianta dopo l’altra, prendendo sotto ogni singolo graspo per non farlo cadere ma delicatamente per non rovinarlo, scostava con l’altra mano le foglie e recideva il gambo riponendo poi così il grappolo nella cesta che piano piano si riempiva ma senza fretta perché nessun grappolo sfuggisse perché, proprio come la vita, nessuno doveva stare indietro e, non colto, marcire sulla pianta.
Ma, il vero oggetto del desiderio per noi bambini durante la vendemmia era il trattore che trainava il carro dell’uva in mezzo ai filari dove si svuotavano i cesti pieni di grappoli.
Si faceva a spintoni per salirne sugli alti scalini di quella macchina che ai nostri occhi sembrava gigante per mettersi così al volante e fingere di guidare.
Quando poi arrivava chi guidava il trattore, se si era fortunati, e all’epoca eravamo molto fortunati, ci metteva uno o due per parte sopra i copri ruota del trattore che erano ruotone mica ruotine e, tenendosi forte, e allacciandosi le cinture di sicurezza che non era altro che aggrapparsi ad ogni sporgenza che non fosse un organo meccanico in movimento ci si teneva duri pronti a partire ma c’era anche chi preferiva trovare posto nel cassone vuoto e così via per un lungo giro prima di andare in mezzo i filari e per noi era un po’ come andare in giostra ma molto meglio.
Passavamo così giorni interi nei campi perché tante e tante erano le viti – e i giri in trattore – così pure molte erano le famiglie che, l’una dopo l’altra, si davano una mano andando le une nelle case delle altre a vendemmiare.
Ad un certo orario portavamo i panini col salame di maiale, salame vero, quello di un maiale vero, non so se mi capisci, ed il vino vecchio, quello dell’anno prima, quello che si doveva per forza finire anche se a volte si esagerava a volerlo finire e uno cominciava a cantare e l’altro a fianco lo accompagnava ed erano tutti allegri e tutti si scambiavano i bicchieri di vetro mezzi pieni che, se vuoti, si riempivano un’altra volta e l’uno usava il bicchiere dell’altro e mica nessuno si ammalava sai e anche noi bambini a volte rubavamo qualche sorso.
Alla sera poi, se ancora non era freddo, si mettevano le tavole in cortile, che all’epoca si chiamava corte, e si brindava alla giornata conclusa, all’ultimo frutto dell’anno che si era colto e, finalmente, si guardava chi c’era, chi non era potuto venire e chi non c’era più perché la vita poi finisce ma come l’uva, frutto della vite, può diventare qualcosa di ancor più buono in vino così la morte, anch’essa frutto ma della vita, non era altro che diventata per quei contadini che compimento alla vita eterna.