Era innanzitutto una gran festa, una gran festa nipote mio. Una festa dove il mangiare aveva ancora colore e sapore; nulla a che vedere con quelle pastiglie bianche che adesso compriamo in farmacia, tutte bianche e tutte uguali che sanno solo di medicina
e dove devi stare attento a vedere cosa c’è scritto fuori dal flacone per sapere se stai prendendo una bistecca, un’insalata o una mela.
L’uccisione del maiale era come un rito, un rito del mondo contadino, ormai rimasto solo nei ricordi del libro contenuto nella testa di qualche vecchio come me, all’epoca solo bambino, e coinvolgeva tutta la famiglia: uomini, donne, bambini, ma anche amici e vicini di casa e finiva sempre a tavola.
Oggi quel rito di sangue e grugniti strazianti sembrerebbe indecente ma allora erano gesti naturali, scene di vita senza i filtri cui assistevano anche i più piccoli e mai a mia madre sarebbe venuto in mente di nascondermi la morte cruenta del maiale.
Quei maiali che nonno ti portava a vedere appena nati nel porcile col suo odore inconfondibile ancora attaccati alle tette della madre, della scrofa e che poi venivano tirati su a pastòn. Ogni contadino aveva il suo fatto di avanzi, farina e qualche ingrediente segreto, di solito qualche prodotto dell’orto, perché la carne diventasse buona da farne bistecche, braciole, salsicce e salami, ossocolli, sopresse e musetto ma solo se lavorate bene da l’uomo che veniva a copare e a far su i maiali.
Ogni famiglia aveva quest’uomo di fiducia e bisognava prenotarlo per tempo perché andava da una famiglia all’altra. Suoi erano i segreti per uccidere bene il maiale, farne scivolare bene via il sangue, macellarlo dividendo carne da carne.
La bestia sentiva avvicinarsi la morte nei passi diversi di quegli uomini e cominciava ad agitarsi. La loro era una pratica che si perdeva nella notte dei tempi, tramandata da padre a figlio. Gli uomini lo trattenevano dalle gambe posteriori sollevandolo mentre l’uomo dei maiali tentava di colpirne il cuore con un coltello poi sostituito negli anni con un aggeggio che chiamavano pistola, anche se non lo era, che poggiavano e spingevano in mezzo gli occhi dell’animale anche se ciò rovinava il cervello che a tanti piaceva mangiarlo.
Perché del maiale non si buttava via praticamente nulla, anche con le setole sai un tempo si facevano gli spazzolini da denti.
Una volta morto, un legno robusto gli attraversava i pennini, che sarebbero le zampe del maiale, e veniva appeso a testa in giù alla trave della stalla. Un incisione profonda faceva sgorgare il sangue che veniva raccolto in una bacinella e subito cucinato dalle donne per farne il sanguinaccio, un dolce che sarebbe stato poi servito a tavola.
Tra la stalla e una vecchia cucina ricavata poco più in là poi era tutto un lavoro di donne e di uomini con compiti diversi a partire dal lavaggio e dalla scelta delle budella, tra quelle per le salsicce, a quelle per salami e soppresse ed era tutto un mettere e togliere grossi pentoloni a bollire sulle stufe ancora a legna, quella a quattro foghi.
E l’uomo del maiale cominciava a sventrare il maiale appeso, da l’alto al basso in due metà per poi cominciare a ricavarne i tagli di bistecche, costate che chiamavamo bracciole e costicine che chiamavamo ossetti.
Poi le parti da macinare, quella per i salami divisa da quella per la soppressa che, diciamo, era un salame più grande e poi la carne per le salsicce e quella per il musetto che era una specie di salame ma veniva cotto bollito perché c’era una carne per una cosa ed una carne per l’altra ed era compito dell’uomo del maiale sceglierla.
Se avesse fatto un buon lavoro sarebbe stato richiamato l’anno successivo e l’anno dopo ancora. E anche la mistura di sali e spezie era un segreto dell’uomo dei maiali che dosava da se in segreto mettendo un po’ di questo e un po’ di quello, un po’ di più per le salsicce e un po’ meno per il salame, mescolato di più o mescolato di meno prima di amalgamarlo con la carne che, macinata, aveva prima diviso e poi lavorata su una tavola in legno lavata con la canna con cui si abbeverava l’orto.
E intanto, si preparava la grande festa della sera col bollito dei pennini e col fegato ed il cuore. Una volta l’uomo del maiale venne verso di me col cuore in mano, mi disse di unire le mie e me lo schiaffò sopra ridendo e dicendomi di portarlo in cucina.
Mi sembra ancora di sentire quella carne calda e vedere quelle gocce di sangue sui pantaloni e sulle scarpe un po’ impaurito ma non del sangue o di quel cuore che, tremolante, sembrava ancora pulsare ma perché se fossi caduto sarebbe stato da buttare e non si sarebbe mangiato ed il cuore era buono. Mi piacerebbe ancora mangiarlo ma nemmeno di pastiglie di cuore ne fanno più e nemmeno il fegato cotto sulla piastra o fatto con la cipolla.
La sera diventava notte e per noi bambini già questo era far festa. Ci si trovava allora tutti i cugini in stanza dei nonni o di uno zio, un fratello di mio papà, che non si era sposato ed era rimasto ad abitare coi genitori. Giocavamo o restavamo a vedere la televisione, divisi tra un letto, un divano spostato per far spazio alle tavolate della sala e in terra. Più tardi i nostri genitori ci sarebbero venuti a prendere. I più piccoli, ormai addormentati venivano vestiti a fatica.
La festa era finita come la vita del maiale ma c’era un grande rispetto per quel animale nato e morto in pochi metri quadri sporchi di vita, che mangiava anche i nostri scarti e che onoravamo negli spaghi di salumi appesi ad asciugare in cantina, che chiamavamo caneva, ancora in terra battuta vicino le botti di legno che allora contenevano ancora il vino oggi contenuto in quelle fiale gialle, rosa e rosse che prendi con le pastiglie e che del vino ha mantenuto solo il colore ma, questa è un’altra storia.